16 Gen Patologie nel post-parto e aiuto alla donna in gravidanza
Il puerperio viene comunemente definito come il periodo che segue il parto, fino al ritorno alle condizioni normali (tale periodo dura approssimativamente sessanta giorni); ma poiché il limite in termini di durata non è da concepirsi rigidamente, varia da persona a persona. Il lavoro psichico richiesto alla puerpera consiste essenzialmente nella riorganizzazione del proprio mondo interiore, in base ai nuovi dati di realtà, e non è cosa da poco, considerando che si tratta di un ulteriore rielaborazione nello spazio di alcuni mesi, dato che lo stesso tipo di lavoro si era reso necessario già in gravidanza. Ciò che accade, dunque, ogni volta che si verifica un cambiamento sostanziale del proprio stato. E’ in questo periodo che si pongono le basi dell’attaccamento, le cui premesse esistono già durante la gravidanza e la cui origine risiede essenzialmente in attaccamenti e relazioni precedenti. Molte esperienze critiche del parto e della maternità come il cambiamento di ruolo, la modificazione dell’immagine di sé, il cambiamento della relazione di coppia, la non corrispondenza del bambino reale con il bambino immaginato e le peculiari situazioni emotive del post-parto (il rifiuto e l’ambivalenza verso il bambino, il sentimento di vuoto, disagio fisico, lo spettro della paura dell’incompetenza), possono condurre la nuova “mamma” a manifestazioni psicopatologiche. La documentazione più antica sulle malattie nel post-parto risale ad Ippocrate nel 400 e a Tortula nel primo secolo dell’Era Cristiana. Nella metà del diciannovesimo secolo iniziò il dibattito sulle caratteristiche cliniche e sull’etiologia delle malattie mentali post-natali. Nel 1845 Esquirol descriveva una serie di sindromi dell’umore post-natali e ne contestava la supposta associazione con l’allattamento60. Nel 1858 Marcé pubblicava uno studio definitivo, i Traits de la Folie des Femmes Enceintes, in cui suggeriva che le malattie mentali del post-partum potessero essere classificate in due gruppi: quelle ad esordio precoce, caratterizzate soprattutto da sintomi cognitivi quali la confusione o il delirio, e quelle con esordio tardivo, caratterizzate prevalentemente da sintomi fisici. L’incertezza riguardo alla nosologia della depressione nel post-partum continua tuttora. L’American Psychiatric Association (APA) nel 1952 rimosse il termine postpartum dalla I edizione del Diagnostic and Statistical of Mental Disorders (DSM) e costruì uno schema diagnostico fondato esclusivamente sui sintomi della malattia. Le malattie mentali del post-partum furono da allora in poi denominate disturbo schizofrenico, affettivo o tossico . Il DSM-II (1968) descriveva come entità separata la depressione nel postpartum, “294.4 Psicosi ad esordio col parto”, ma il DSM-II (1980) eliminava questa categoria e sosteneva: ”non vi è prova sicura che la psicosi nel post-partum sia un entità distinta” (APA 1968, 1980). Indipendentemente dalla nosologia del DSM-IV, in cui il termine “depressione post-partum” è stato incluso sotto la denominazione “Mood Disorders with a PostPartum Onset Specifier”, oggi la maggior parte dei ricercatori riconosce il continuum di gravità del disturbo dell’umore nel post-partum, che può essere distinto in tre categorie: Maternity Blues, Depressione nel post-partum e Psicosi Puerperale. Vediamole nello specifico:
Il Maternity Blues è la forma più comune di disturbo postnatale è rappresentata da un lieve disturbo emozionale transitorio, di cui soffrono più della metà delle neo mamme occidentali che emerge tipicamente 2-3 giorni dopo il parto per poi scomparire entro una decina di giorni circa. Questo disturbo è anche conosciuto come “sindrome del terzo giorno” o “sindrome transitoria” ma più comunemente “maternity blues” (il termine blues ha un significato particolare in campo musicale: nelle origini del jazz è un elemento essenziale che ne rappresenta l’ispirazione triste e malinconica). Secondo un dato l’OMS colpisce dal 50% all’ 80% delle neomadri subito dopo il parto. I “blues” sono caratterizzati da sentimenti di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo di madre, labilità emotiva (crisi di pianto), oscillazioni dell’umore e ipersensibilità, che si accentuano intorno al quinto giorno e tendono a durare alcune ore o talvolta alcuni giorni. Poiché i risultati presenti in letteratura sull’argomento sono spesso contraddittori, si può ipotizzare che ciò sia causato dalle molteplici definizioni e misurazioni che sono state fornite dai diversi autori che si sono occupati di questa sindrome. Tuttavia, quasi tutti gli autori coincidono nel ritenere che la “maternity blues” sia caratterizzata da sette sintomi principali: deflessione timica di grado lieve, sentimenti di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo di madre, labilità emotiva (crisi di pianto), disforia (irritabilità), ansia , insonnia e confusione mentale. Subito dopo il parto, la donna si ritrova a dover mutare la propria immagine, passando dall’immagine di sé come gestante, a quella di madre che si prende cura di un bambino piccolo e indifeso. Lo spodestamento del suo sé precedente, l’eventuale mancata soddisfazione delle aspettative materne circa il sesso del bambino, la gelosia nei confronti del bambino che è al centro dell’attenzione di tutti, il senso di inadeguatezza per come si prende cura realmente di suo figlio rispetto a come l’aveva immaginato, sono tutti aspetti che possono contribuire a sviluppare sentimenti di confusione nella neomamma. La madre inoltre, deve essere in grado di tollerare lo spazio vuoto conseguente al parto, liberandolo dalle proiezioni elementari di cui lo ha colmato il neonato e colmandolo di reciproche soddisfazioni reali. Il senso di vuoto interno conseguente alla nascita del bambino può essere compensata dalla vicinanza del neonato stesso, che la donna allatta al seno. Infatti, il poter godere di un intimo costante contatto con il proprio bambino, può aiutare la madre a ritrovare quell’unione che il parto ha irrimediabilmente rotto. Talvolta però la costante vicinanza del neonato, nel periodo immediatamente successivo al parto, rende l’incontro tra madre e figlio difficile e faticoso per la neomamma. Alcune madri che hanno bisogno di maggior tempo per rielaborare l’esperienza vissuta con la nascita del bambino e per incontrarlo nella realtà possono così presentare crisi di pianto, irritabilità e disturbi somatici, come insonnia, cefalee e anoressia. Questi sintomi tendono a scomparire intorno al decimo giorno dopo il parto, anche se alcuni autori hanno osservato una loro durata maggiore. Sebbene ancora non si sia riusciti ad isolare una o più cause di questo disturbo, è possibile affermare che nella “maternity blues” siano implicate determinanti psicologiche, sociali e biomediche. Non si tratta comunque di uno stato patologico e non vi è necessità di uno strutturato intervento terapeutico farmacologico o psicoterapeutico, perché questo stato di disagio tende a rientrare spontaneamente in tempi brevi (circa due settimane).
La Depressione post-partum è caratterizzata da diversi sintomi: sentimenti di inadeguatezza, d’incompetenza e di disperazione, collera, odio verso se stesse, ipersensibilità, ansia, vergogna, trasandatezza, disturbi del sonno e dell’appetito, calo del desiderio e perfino pensieri suicidi. Altri sintomi che sono stati riferiti da madri depresse riguardo pensieri di carattere ossessivo che riguardano il bambino sono: la paura di farlo cadere e di fargli male, fino a giungere in casi estremi a pensieri di infanticidi. L’incidenza secondo un dato dell’OMS è del 10-15% delle puerpere. La depressione è diagnosticabile attraverso la somministrazione di appositi test; il periodo migliore per somministrare i test va dalle 5 alle 8 settimane dopo il parto (il 50% dei casi di depressione post-partum insorge entro i primi tre mesi). Tra i fattori che possono influire sull’insorgenza della depressione post-partum è possibile individuare un fattore di tipo ormonale. Infatti, nel periodo successivo al parto, i valori di estradiolo e progesterone, prolattina e cortisolo, così come alcuni ormoni tiroidei variano repentinamente, si ha in particolare un brusco calo di estrogeni; queste variazioni agiscono direttamente a livello cerebrale, interfacciandosi con i meccanismi di neurotrasmissione coinvolti nelle patologie depressive e determinando quindi la comparsa di sintomi depressivi (Dalton 1989; Mencacci 2002). Il fatto che tutte le donne dopo il parto siano soggette a repentini cambiamenti ormonali, ma che solo alcune soffrono di depressione, ha suggerito la presenza di una varietà di fattori eziologici, da quello biomedico a quello psicologico, che interagiscono tra loro nell’insorgenza della depressione post-partum. Ma vi sono altri fattori di vulnerabilità, che possono predisporre le donne alla depressione, ad esempio fattori di personalità: un forte bisogno di ordine, perfezionismo, scarsa autostima, scarse abilità sociali, mancanza di un supporto affettivo o di una relazione intima coniugale o ancora la mancanza di un lavoro retribuito. Autori d’orientamento psicoanalitico hanno sempre posto l’accento su come la riattivazione, durante la gravidanza e nel periodo post-natale, di sentimenti ambivalenti irrisolti della donna, riguardanti il rapporto con i genitori durante l’infanzia, l’eccessiva idealizzazione della gravidanza e i conflitti sulla propria identità femminile, possono evolvere dalla depressione post-partum. Raphael Leff ha affermato che una donna è maggiormente a rischio di sviluppare una depressione nel periodo post-natale quando si trova ad essere ostacolata nell’attualizzazione delle sue specifiche aspettative circa la maternità. Quando una madre è preoccupata, depressa o eccessivamente ansiosa, tende a non rispondere positivamente al bisogno di affermazione del proprio bambino. Non riesce ad essere una “base sicura” per la sua esplorazione o a fungere da “riferimento sociale” per lui., esprimendogli la sua eventuale paura, la sua rassicurazione o il suo avvertimento del pericolo. Se la depressione post-partum arriva ad avere sintomi di notevole entità può essere pericolosa per l’incolumità della madre stessa e del bambino. Tuttavia non bisogna dimenticare che in casi meno estremi gli effetti possono essere ugualmente disastrosi. La depressione post-partum non tende a scomparire spontaneamente come la “Maternity blues” per cui le cure possono consistere nell’iniziare una terapia farmacologica, nella psicoterapia e nella partecipazione a terapie di gruppo con donne che manifestano la stessa sintomatologia. Il 50% delle madri non trattate risultano ancora depresse dopo sei mesi, e il 25 % delle madri non trattate risultano ancora depresse dopo un anno. Bisogna distinguere due quadri psicopatologici diversi: la depressione minore e la depressione maggiore. Nella depressione minore la sintomatologia si manifesta con depressione dell’umore associata a sensazione di esaurimento fisico, specie nelle ore serali, irritabilità, diminuzione dell’appetito, calo del desiderio sessuale, insonnia, risentimento ed ostilità e sintomi somatici di varia natura. Sono frequenti i disturbi associati di tipo ansioso nelle forme acute del panico o in quelle somatizzate così come le manifestazioni fobiche o ossessivo-compulsive. L’aspetto più tipico di questa forma riguarda l’insicurezza circa la propria capacità materna, vissuta dalle donne in modo conflittuale e colpevolizzante, che può tradursi in una eccessiva preoccupazione per il bambino e in una ostilità nei suoi confronti più o meno manifesta. In questi casi è fondamentale un adeguato sostegno psicologico alla donna che si è dimostrato utile affiancare a sedute di terapia di coppia o familiare finalizzate a dare un significato condiviso alla malattia e a fornire anche al coniuge o ai figli uno spazio di espressione e comprensione dei propri sentimenti, spesso anch’essi fortemente ambivalenti. La sintomatologia della depressione maggiore appare più grave e persistente rispetto alla depressione minore, può essere associata a confusione ed avere un esordio acuto. L’insorgenza è frequente nel corso del primo mese dal parto con una maggiore concentrazione nella prima settimana. Presenta i sintomi dell’episodio depressivo maggiore secondo il DSM IV, con la caratteristica che la maternità e l’accudimento del bambino costituiscono il contenuto della maggior parte dei vissuti e dei deliri depressivi. Le donne che ne sono colpite possono manifestare sentimenti eccessivi e perfino deliranti di autoaccusa e di inutilità accompagnati da agitazione o rallentamento motorio Spesso possono temere di danneggiare i propri figli, o viceversa convincersi che i loro bambini non siano mai sani, nonostante le rassicurazioni del pediatra. Questi vissuti non devono essere sottovalutati dai familiari come dai medici (medico di base, ginecologo, pediatra..) che seguono la donna ma piuttosto costantemente monitorati e segnalati ad uno specialista psicologo o psicoterapeuta che valuterà la possibilità di un intervento anche farmacologico psichiatrico. La gravità della situazione può infatti emergere drammaticamente con un danno al bambino o un gesto autolesivo. Infatti le idee di omicidio-siucidio (il cosiddetto “omicidio per amore”) sono ricorrenti.
Le Psicosi puerperali: in alcuni tipi di personalità l’evento, per sua stessa natura critico della maternità, può provocare degli squilibri così drammatici e profondi da configurare il quadro clinico delle psicosi puerperali. L’eziopatogenesi delle psicosi puerperali risulta essere piuttosto complessa. Il rischio è più alto nelle primipare, anche se si può manifestare in gravidanze successive, e la presenza di disturbi psichici nella storia personale della donna costituisce un altro importante fattore di rischio. In particolare, soggetti affetti da un disturbo affettivo sono sottoposti al 50% di rischio di ammalarsi di un episodio puerperale, inoltre, una precedente psicosi puerperale aumenta la possibilità di contrarre la malattia del 30% nei casi di successiva maternità. Secondo alcuni autori, stress psicosociali come la condizione non coniugale, il parto cesareo o la morte del feto costituiscono anche essi un fattore di rischio per l’insorgenza di una psicosi (si manifesta in un caso su mille). Per quanto riguarda i fattori biologici implicati nella patogenesi delle psicosi puerperali, le conoscenze sono ancora relativamente scarse e controverse. Sembra inoltre plausibile pensare che questa patologia sia almeno in parte biologicamente mediata e che un possibile meccanismo sia costituito da un’ipersensibilità alla dopamina indotta dalla rapida caduta degli estrogeni. La psicosi puerperale ha un esordio prevalentemente acuto. La sintomatologia si manifesta per lo più entro le prime due settimane dal parto ed il ricovero ospedaliero avviene di solito entro il primo mese. La situazione è composita in quanto coesistono sintomi affettivi (depressione, mania e stati misti) con elementi deliranti sia congrui con il disturbo dell’umore che incongrui: allucinazioni, incoerenza, disorganizzazione del comportamento, confusione mentale I contenuti dei deliri sono collegati all’esperienza materna e generalmente riguardano la vita e la salute del bambino, che la madre crede compromesse per causa sua, o l’appartenenza del neonato, che la donna crede scambiato con un altro non suo, o ancora deliri di negazione dell’esistenza del figlio e della maternità. Vari studi (Soifer, 1971; Kendell et al., 1981; Harding; 1989; Brackington et al.,1988; Raphael-Leff, 1991) hanno evidenziato l’esistenza di varie forme di psicosi puerperale. La Soifer ha descritto la depressione puerperale grave, comunemente conosciuta come psicosi puerperale, come uno stato in cui la donna si ritira in se stessa, è triste, rifiuta totalmente il suo bambino, affermando di non sopportarlo e volerlo vedere, è apatica, trasandata, non si veste, non si lava, non si pettina, presenta insonnia e inappetenza. Molto spesso riferisce allucinazioni per lo più uditive, e idee deliranti di tipo paranoide, come quando teme che qualcuno la derubi, la uccida o lo avveleni. Può presentare sentimenti di autovalutazione e autoriprovazione di natura melanconica, per cui la donna si sente inutile, inservibile, e incapace di crescere i figli. Questo stato può avere remissione spontanea, in qualche giorno, mese o anno. Nella remissione spontanea riveste un ruolo molto importante la capacità dei familiari di tollerare, assorbire e rielaborare l’angoscia che determina questa situazione. La psicosi puerperale di tipo maniacale è caratterizzata da una puerpera allegra, vivace, che non si occupa del neonato, non riconosce nessun cambiamento nella sua vita, a partire della seconda o terza settimana fa in modo di restare il più possibile lontana dal bambino, lasciando alle cure di altri. L’anormalità di questa condizione psicologica si manifesta soprattutto con uno stato di tensione permanente, irritabilità e iperattività. Nei casi di remissione spontanea, in cui scompaiono le manifestazioni esterne e vistose, la donna all’apparenza sembra prendersi cura del bambino, ma in realtà tende a delegare i propri compiti di “caregiving” a qualcun altro. E’ in questi casi che sono maggiori i rischi per il futuro, in quanto la remissione ha avuto luogo in conformità a una profonda dissociazione della personalità, attuata attraverso la negazione e rimozione dei vissuti persecutori e depressivi, quindi l’assunzione del ruolo materno è incompleto e parziale. Le donne affette da questa forma di psicosi puerperale, successivamente, possono cercare di sostituire la loro incapacità di assumere il ruolo materno, sopprimendo l’angoscia e la frustrazione derivanti da questa loro mancanza in vari modi: promiscuità sessuale, gioco d’azzardo, tossicodipendenza, esterna dedizione al lavoro (Soifer, R.,1971). Sebbene circa la metà delle donne presenti episodi psicotici precedenti al puerperio e una storia familiare caratterizzata da malattie mentali, la causa delle psicosi puerperali è ancora sconosciuta. Allo stesso tempo però si è osservato che questo tipo di psicosi può insorgere anche in donne che prima del puerperio sembravano essere psicologicamente sane, soprattutto successivamente alla loro prima gravidanza.
Il momento dell’insorgenza della psicosi puerperale sembra essere un fattore molto importante nel determinare la qualità del legame madre-figlio. Per millenni gli episodi psicotici del puerperio sono stati confusi con i quadri di delirium delle sepsi puerperali; nonostante la distinzione che ha definitivamente assegnato le psicosi post-partum alla psichiatria risalga alla fine dell’800, la questione della loro eziologia è tuttora attualissima, insieme a quella dell’inquadramento diagnostico di questi episodi caratterizzati da uno spiccato polimorfismo e da una misura di segni affettivi e scheideriani.
Lo strumento di screening più comunemente utilizzato nel periodo postnatale è la Edimburg Postnatal Depression Scale (EPDS) o Scala di Edimburgo, che andrebbe utilizzata in tutte le donne alla prima visita di controllo (approssimativamente sei settimane) dopo il parto e che, nei casi incerti, è consigliabile utilizzare nuovamente a distanza di due settimane. La EPDS dovrebbe essere somministrata da professionisti specificatamente formati e poiché non individua madri con nevrosi d’ansia, fobia e disturbi di personalità, non può essere considerata come unico criterio clinico, ma permette di individuare la popolazione per la quale è indicato un accertamento accurato. In altri termini, EPDS dovrebbe essere offerta alle donne in un periodo postnatale come parte di un programma di screening e non deve essere considerata uno strumento diagnostico. La diagnosi di depressione postnatale richiede infatti una accurata valutazione clinica. La scala comprende dieci affermazioni; le madri scelgono tra quattro possibili risposte, quella che corrisponde meglio allo stato d’animo provato durante gli ultimi sette giorni. Il suo valore predittivo positivo varia da 44% a 73%, dipendentemente dai limiti di soglia che vengono scelti. L’aiuto alla donna in gravidanza necessita di profili di intervento diversi e complementari, che coinvolgono dimensioni educative, psicologiche-sanitarie e sociali. Credo fermamente che la relegazione di una donna nella solitudine, materiale o morale, dinnanzi all’impegno della maternità, costituisce una violazione radicale della dignità umana sia della donna-madre che del figlio, rappresentando, inoltre, il fallimento dei vincoli solidaristici fondamentali per una convivenza civile.